Giornata di fine estate, ma il caldo ancora stropiccia i vestiti. Una libreria, rifugio ideale delle menti pensanti e dei corpi accaldati. Girovago tra scaffali, alla ricerca di una illuminazione e mi capita tra le mani una raccolta di foto: “Bologna sotto la neve”.
Immagini di tempi lontani, quando ancora Piazza Maggiore era invasa dalle piccole 500, il filobus percorreva indisturbato la strada a fianco del Nettuno, i laghetti dei giardini Margherita divenivano completamente ghiacciati e le persone si infilavano ai piedi i loro pattini e via, e la neve scendeva così abbondante da costringere le persone a scavare tunnel come strade.
Mi diverte cercare di riconoscere i luoghi così come li conosco io, oggi.
Poi, all’improvviso, una foto cattura la mia attenzione. Lo conosco quel posto, è così familiare.
La foto si intitola “presepe vivente a Bologna”, e ritrae due persone vestite da Re Magi ed alle loro spalle una navata, finestre di mattoni, alberi secolari ed un arco; ancora più a sinistra si intravede un edificio, basso, con una grande porta di ingresso, di quelle in ferro battuto con vetri opachi.
Guardo meglio dentro alla foto, guardo meglio dentro ai miei ricordi di bambina.
Quel posto esiste ancora, ma allo stesso tempo non esiste più.
Ed all’improvviso sono dentro al cortile dei Salesiani, prima del 1989, quando quello spazio non era occupato per la metà da una imponente e moderna struttura, quando passeggiavi sotto il portico e potevi chiaramente sentire il rumore e l’odore del legno che veniva lavorato nella falegnameria dell’Istituto, quando i bambini facevano educazione fisica in cortile per gran parte dell’anno, e si rifugiavano in quella che chiamavano palestra solo quando fuori pioveva forte o c’era la neve, o la temuta interrogazione su muscoli ed ossa…
Io c’ero, sono ricordi che mi appartengono, ed ero spettatrice di quel mondo; “la figlia del Prof.”, così mi sono sentita chiamare per tantissimi anni.
Arrivavo con la mia cartella, entravo in quei cortili come se fossi a casa, ed andavo a cercare mio papà, trovandolo quasi sempre alle prese con ragazzi scalmanati, corsi di bandiera per diventare sbandieratori, pertiche, vogatori ed interrogazioni a sorpresa.
Una porta di ferro, altissima ed arrugginita dal tempo, e dentro profumo di fatica, riconoscibile quasi come l’odore del pane che aleggia intorno ai fornai.
Mattonelle nere, come piccole lavagne sconnesse appoggiate a terra, e ragazzi che giocano ad inseguirsi, che risalgono le pertiche, che saltano la cavallina e si buttano sui materassi verdi, quelli grandi ed alti e pesantissimi.
E poi una soffitta, la palestrina, con attrezzi in puro acciaio, resistenze improponibili, un vogatore, birilli, palle mediche e due banchetti dove gli studenti riponevano il quadernone di educazione fisica.
Quante giornate passate a pattinare sui cerchi bianchi dipinti, rischiando di sbucciarsi le ginocchia solo perché il fondo liscio era un’utopia.
Una palestra che significava casa, ma troppo piccola per contenere l’esplosione di ragazzi ed attività che la scuola, ma soprattutto l’oratorio, richiedevano.
“Gianni, che ne diresti se….?”
Ed in men che non si dica, all’improvviso, un buco profondissimo nel cortile, e poi le fondamenta, il sole, il freddo e poi ancora il sole.
Il mio rifugio era sparito. Ma un mattone rosso dopo l’altro era cresciuta un’altra casa, più simile ad un’astronave che ad una soffitta, con mattonelle chiare ed un fondo verde liscio e lucido, e la prima cosa che pensai erano i miei pattini, e la felicità che avrei provato nel sentirli scorrere lì sopra silenziosamente, e le mie ginocchia, che finalmente avrebbero potuto smettere di sbucciarsi.
E poi mille porte e mille chiavi, ed all’improvviso l’odore di fatica se ne era andato, e tutto sapeva di nuovo, di legno, di gomma, ma soprattutto era una nuova Casa.
Me ne innamorai, immediatamente. Ed iniziai il gioco dell’esplorazione: cunicoli, scale, sempre nuove porte, interruttori, chiavi, attrezzi….ero inconsapevolmente diventata la tester della sicurezza della nuova palestra!
E poi un bel giorno il prof., Chiara, Marco, Vito, Mara ed io trascorremmo un intero pomeriggio a colorare un sole che spuntava dai monti, o forse era una w dentro ad un cerchio, cercando di decidere i colori che per tutti gli anni a venire avrebbero identificato quella nuova casa.
Con mio grande dispiacere le mie intuizioni da bimbetta non trovarono il consenso dei Soci Fondatori….ed oggi, con il senno di poi, ne sono felice. La banalità del “rosa-azzurro” e “verde-viola” non sarebbero mai stati in grado di rappresentare al meglio tutto quello che negli anni a venire la Welcome avrebbe significato.
Il rosso, è il primo colore dell’arcobaleno. Si ritiene anche che sia il primo colore percepito dai bambini. Spinge verso l’attività, denota un senso di forza e di sicurezza. Il rosso rappresenta infatti la mobilitazione di tutte le energie, cui corrisponde la sicurezza di sé, la fiducia nelle proprie forze e capacità, dinamismo e vitalità.
Anche l’arancione è legato all’energia fisica e mentale, al dinamismo ed alla concentrazione. Ma soprattutto, il caldo arancione è accoglienza
Giornata di fine estate, ma il caldo ancora stropiccia i vestiti. Una libreria, rifugio ideale delle menti pensanti e dei corpi accaldati. Girovago tra scaffali, alla ricerca di una illuminazione e mi capita tra le mani una raccolta di foto: “Bologna sotto la neve”.
Immagini di tempi lontani, quando ancora Piazza Maggiore era invasa dalle piccole 500, il filobus percorreva indisturbato la strada a fianco del Nettuno, i laghetti dei giardini Margherita divenivano completamente ghiacciati e le persone si infilavano ai piedi i loro pattini e via, e la neve scendeva così abbondante da costringere le persone a scavare tunnel come strade.
Mi diverte cercare di riconoscere i luoghi così come li conosco io, oggi.
Poi, all’improvviso, una foto cattura la mia attenzione. Lo conosco quel posto, è così familiare.
La foto si intitola “presepe vivente a Bologna”, e ritrae due persone vestite da Re Magi ed alle loro spalle una navata, finestre di mattoni, alberi secolari ed un arco; ancora più a sinistra si intravede un edificio, basso, con una grande porta di ingresso, di quelle in ferro battuto con vetri opachi.
Guardo meglio dentro alla foto, guardo meglio dentro ai miei ricordi di bambina.
Quel posto esiste ancora, ma allo stesso tempo non esiste più.
Ed all’improvviso sono dentro al cortile dei Salesiani, prima del 1989, quando quello spazio non era occupato per la metà da una imponente e moderna struttura, quando passeggiavi sotto il portico e potevi chiaramente sentire il rumore e l’odore del legno che veniva lavorato nella falegnameria dell’Istituto, quando i bambini facevano educazione fisica in cortile per gran parte dell’anno, e si rifugiavano in quella che chiamavano palestra solo quando fuori pioveva forte o c’era la neve, o la temuta interrogazione su muscoli ed ossa…
Io c’ero, sono ricordi che mi appartengono, ed ero spettatrice di quel mondo; “la figlia del Prof.”, così mi sono sentita chiamare per tantissimi anni.
Arrivavo con la mia cartella, entravo in quei cortili come se fossi a casa, ed andavo a cercare mio papà, trovandolo quasi sempre alle prese con ragazzi scalmanati, corsi di bandiera per diventare sbandieratori, pertiche, vogatori ed interrogazioni a sorpresa.
Una porta di ferro, altissima ed arrugginita dal tempo, e dentro profumo di fatica, riconoscibile quasi come l’odore del pane che aleggia intorno ai fornai.
Mattonelle nere, come piccole lavagne sconnesse appoggiate a terra, e ragazzi che giocano ad inseguirsi, che risalgono le pertiche, che saltano la cavallina e si buttano sui materassi verdi, quelli grandi ed alti e pesantissimi.
E poi una soffitta, la palestrina, con attrezzi in puro acciaio, resistenze improponibili, un vogatore, birilli, palle mediche e due banchetti dove gli studenti riponevano il quadernone di educazione fisica.
Quante giornate passate a pattinare sui cerchi bianchi dipinti, rischiando di sbucciarsi le ginocchia solo perché il fondo liscio era un’utopia.
Una palestra che significava casa, ma troppo piccola per contenere l’esplosione di ragazzi ed attività che la scuola, ma soprattutto l’oratorio, richiedevano.
“Gianni, che ne diresti se….?”
Ed in men che non si dica, all’improvviso, un buco profondissimo nel cortile, e poi le fondamenta, il sole, il freddo e poi ancora il sole.
Il mio rifugio era sparito. Ma un mattone rosso dopo l’altro era cresciuta un’altra casa, più simile ad un’astronave che ad una soffitta, con mattonelle chiare ed un fondo verde liscio e lucido, e la prima cosa che pensai erano i miei pattini, e la felicità che avrei provato nel sentirli scorrere lì sopra silenziosamente, e le mie ginocchia, che finalmente avrebbero potuto smettere di sbucciarsi.
E poi mille porte e mille chiavi, ed all’improvviso l’odore di fatica se ne era andato, e tutto sapeva di nuovo, di legno, di gomma, ma soprattutto era una nuova Casa.
Me ne innamorai, immediatamente. Ed iniziai il gioco dell’esplorazione: cunicoli, scale, sempre nuove porte, interruttori, chiavi, attrezzi….ero inconsapevolmente diventata la tester della sicurezza della nuova palestra!
E poi un bel giorno il prof., Chiara, Marco, Vito, Mara ed io trascorremmo un intero pomeriggio a colorare un sole che spuntava dai monti, o forse era una w dentro ad un cerchio, cercando di decidere i colori che per tutti gli anni a venire avrebbero identificato quella nuova casa.
Con mio grande dispiacere le mie intuizioni da bimbetta non trovarono il consenso dei Soci Fondatori….ed oggi, con il senno di poi, ne sono felice. La banalità del “rosa-azzurro” e “verde-viola” non sarebbero mai stati in grado di rappresentare al meglio tutto quello che negli anni a venire la Welcome avrebbe significato.
Il rosso, è il primo colore dell’arcobaleno. Si ritiene anche che sia il primo colore percepito dai bambini. Spinge verso l’attività, denota un senso di forza e di sicurezza. Il rosso rappresenta infatti la mobilitazione di tutte le energie, cui corrisponde la sicurezza di sé, la fiducia nelle proprie forze e capacità, dinamismo e vitalità.
Anche l’arancione è legato all’energia fisica e mentale, al dinamismo ed alla concentrazione. Ma soprattutto, il caldo arancione è accoglienza
E quella W.
W come Welcome.
W come un sole che sorge tra i monti.
W come un abbraccio.
Tutti questi discorsi sono quelli che ricordo. Ero piccola allora. E certamente i dibattiti saranno stati molto più accesi ed ampi di così.
Ma da quel giorno quando guardo il nostro simbolo rivedo e sento tutte queste cose insieme.
E poi, Don Elia Comini.
Quante storie di vita vissuta ci passano davanti senza che i nostri occhi siano capaci di osservarle davvero.
C’è un busto, sul lato di vetro nella parete esterna della palestra. E’ lui, Don Elia Comini. Non ricordo come si giunse alla decisione di chiamare questa palestra con il suo nome, ma credo che mai scelta sia stata più azzeccata per rappresentare lo spirito con cui i Salesiani hanno deciso di investire energie e denari nella creazione di un progetto che nel 1989 definire avveneristico par tutt’ora riduttivo.
Elia Comini nacque il 7 maggio del 1910 a Calvenzano, proprio qui, sulle prime colline bolognesi. Frequentò la scuola Salesiana di Finale dell’Emilia ed al termine del suo percorso chiese di diventare anch’esso Salesiano. Trascorse il periodo del noviziato a Castel dè Britti, e fece la sua prima professione religiosa nel 1926. Venne ordinato sacerdote il 16 marzo 1935.
Don Elia fu sacerdote ed insegnante, apostolo ed educatore di giovani, nelle scuole salesiane di Chiari e Treviglio.
Tutti questi discorsi sono quelli che ricordo. Ero piccola allora. E certamente i dibattiti saranno stati molto più accesi ed ampi di così.
Ma da quel giorno quando guardo il nostro simbolo rivedo e sento tutte queste cose insieme.
E poi, Don Elia Comini.
Quante storie di vita vissuta ci passano davanti senza che i nostri occhi siano capaci di osservarle davvero.
C’è un busto, sul lato di vetro nella parete esterna della palestra. E’ lui, Don Elia Comini.
Non ricordo come si giunse alla decisione di chiamare questa palestra con il suo nome, ma credo che mai scelta sia stata più azzeccata per rappresentare lo spirito con cui i Salesiani hanno deciso di investire energie e denari nella creazione di un progetto che nel 1989 definire avveneristico par tutt’ora riduttivo.
Elia Comini nacque il 7 maggio del 1910 a Calvenzano, proprio qui, sulle prime colline bolognesi. Frequentò la scuola Salesiana di Finale dell’Emilia ed al termine del suo percorso chiese di diventare anch’esso Salesiano. Trascorse il periodo del noviziato a Castel dè Britti, e fece la sua prima professione religiosa nel 1926. Venne ordinato sacerdote il 16 marzo 1935.
Don Elia fu sacerdote ed insegnante, apostolo ed educatore di giovani, nelle scuole salesiane di Chiari e Treviglio.
Ricordando Don Elia Comini
Nell’estate del 1944 si recò a Salvaro per assistere la propria madre. La zona, come tutti sappiamo, era diventata epicentro di guerra tra alleati, partigiani e tedeschi, tra il terrore della popolazione e la devastazione pressoché totale. I Salvaresi e gli sfollati di quei territori ebbero Don Elia al proprio fianco, sempre pronto, oltre che a svolgere i suoi compiti di religioso, anche a soccorrere i rastrellati ed i rifugiati, medicare i feriti, cercare di mediare tra i tedeschi ed i partigiani.
Un giorno nella parrocchia di Salvaro giunse la notizia che in seguito ad uno scontro con i partigiani le SS avevano catturato 69 persone, tra le quali si trovavano certamente moribondi in cerca di conforto.
Senza pensarci un attimo Don Elia prese gli olii santi e si incamminò per andare a portare conforto ai prigionieri, ma venne anch’esso catturato perché considerato spia e costretto a lavorare duramente. Venne messo in una scuderia insieme agli altri ostaggi e, con eroica carità pastorale, rifiutò la libertà che gli venne proposta per stare vicino agli altri prigionieri.
Disse: “o ci liberano tutti, o nessuno”.
Prima della fucilazione, il 1 ottobre del 1944, pronunciò ad alta voce l’assoluzione per gli altri ostaggi, che risposero con un segno di croce.
Un gesto silenzioso, di eroismo quotidiano, come tanti altri che la storia ci ha saputo raccontare.
Un uomo legato alla nostra terra, silenzioso martire, ha donato tutto sé stesso nella scelta di portare sostegno, sorrisi e conforto agli altri.
Su questi valori è stata posata la prima pietra della nostra palestra.
Su questi valori la nostra palestra è stata inaugurata il XXX.
Il taglio del nastro è avvenuto davanti a volti che per me erano come parenti, ma tra tutti ne ricordo uno, quello di Don Facchini, l’allora Direttore dell’Istituto che in prima persona si è impegnato per far sì che il sogno si trasformasse in realtà.
Mi manca, è venuto a mancare troppo presto come tante persone che negli anni hanno saputo lasciare un segno nella nostra storia.
Lui, Vito, Mara e Don Rivoltella, il padre ideatore di una delle nostre esperienze più riuscite, quella della 24 ore di fine anno.
Sono qui, ogni tanto mi fermo e rileggo quello che ho scritto, e rivedo oltre vent’anni della mia ancor giovane vita.
Rivedo gli entusiasmi dei primi giorni di apertura della neonata Società Sportiva, lo stupore evidente sui volti di mio padre e di Marco nell’accorgersi che le iscrizioni alla palestra erano di gran lunga superiori alle aspettative, le preoccupazioni e la paura di fronte ad un progetto che stava a grandi passi diventando una realtà importante.
Chiunque abbia vissuto in Bolognina è passato almeno una volta nella sua vita tra i cortili dell’oratorio salesiano e tra i gradoni della sua palestra.
Rivedo le prime squadre, i primi campionati, le trasferte con le macchine dei genitori ed i primi viaggi oltre nazione per le nostre Olimpiadi.
Le feste di Natale, che venivano organizzate (quando ancora legislazione e numero degli iscritti lo permettevano) in un salone che diventava per l’occasione teatro delle prelibatezze che solo mamme e nonne sanno sfornare nelle più importanti occasioni.
Rivedo tutte le persone che hanno fatto parte del Consiglio Direttivo, la loro gioia e le fatiche che sono seguite ad un incarico volontario così impegnativo, i tristi arrivederci nel momento in cui le strade erano destinate a dividersi.
Rivedo l’entusiasmo dei “giovani” che adesso sono la vera anima di questa Polisportiva, e la passione con cui tutt’ora scelgono di mettersi in gioco, dedicando, loro come noi allora, uno spazio di cuore a questa casa di mattoni.
Perché alla fine questa palestra è una parte della nostra vita, come la nostra prima fidanzata o la prima macchina che ci è stata regalata dopo la patente.
E’ una parte della nostra vita che cambia forma pur mantenendosi ferma nei suoi valori per assomigliare via via alle persone che sono elette per decidere che direzione percorrere.
E’ molto più di un semplice sport, è molto più di un’idea, è molto più di un passatempo, e chiunque abbia vissuto davvero queste mura lo sa e non può fare altro,ogni volta che mette piede tra questi cortili ed in questa palestra, che sentire solo e soltanto il rumore e l’odore di Casa.
Elena Bernardi (ex consigliere e socia fondatrice Polisportiva PGS Welcome)
Ricordando Don Elia Comini
Nell’estate del 1944 si recò a Salvaro per assistere la propria madre. La zona, come tutti sappiamo, era diventata epicentro di guerra tra alleati, partigiani e tedeschi, tra il terrore della popolazione e la devastazione pressoché totale. I Salvaresi e gli sfollati di quei territori ebbero Don Elia al proprio fianco, sempre pronto, oltre che a svolgere i suoi compiti di religioso, anche a soccorrere i rastrellati ed i rifugiati, medicare i feriti, cercare di mediare tra i tedeschi ed i partigiani.
Un giorno nella parrocchia di Salvaro giunse la notizia che in seguito ad uno scontro con i partigiani le SS avevano catturato 69 persone, tra le quali si trovavano certamente moribondi in cerca di conforto.
Senza pensarci un attimo Don Elia prese gli olii santi e si incamminò per andare a portare conforto ai prigionieri, ma venne anch’esso catturato perché considerato spia e costretto a lavorare duramente. Venne messo in una scuderia insieme agli altri ostaggi e, con eroica carità pastorale, rifiutò la libertà che gli venne proposta per stare vicino agli altri prigionieri.
Disse: “o ci liberano tutti, o nessuno”.
Prima della fucilazione, il 1 ottobre del 1944, pronunciò ad alta voce l’assoluzione per gli altri ostaggi, che risposero con un segno di croce.
Un gesto silenzioso, di eroismo quotidiano, come tanti altri che la storia ci ha saputo raccontare.
Un uomo legato alla nostra terra, silenzioso martire, ha donato tutto sé stesso nella scelta di portare sostegno, sorrisi e conforto agli altri.
Su questi valori è stata posata la prima pietra della nostra palestra.
Su questi valori la nostra palestra è stata inaugurata il XXX.
Il taglio del nastro è avvenuto davanti a volti che per me erano come parenti, ma tra tutti ne ricordo uno, quello di Don Facchini, l’allora Direttore dell’Istituto che in prima persona si è impegnato per far sì che il sogno si trasformasse in realtà.
Mi manca, è venuto a mancare troppo presto come tante persone che negli anni hanno saputo lasciare un segno nella nostra storia.
Lui, Vito, Mara e Don Rivoltella, il padre ideatore di una delle nostre esperienze più riuscite, quella della 24 ore di fine anno.
Sono qui, ogni tanto mi fermo e rileggo quello che ho scritto, e rivedo oltre vent’anni della mia ancor giovane vita.
Rivedo gli entusiasmi dei primi giorni di apertura della neonata Società Sportiva, lo stupore evidente sui volti di mio padre e di Marco nell’accorgersi che le iscrizioni alla palestra erano di gran lunga superiori alle aspettative, le preoccupazioni e la paura di fronte ad un progetto che stava a grandi passi diventando una realtà importante.
Chiunque abbia vissuto in Bolognina è passato almeno una volta nella sua vita tra i cortili dell’oratorio salesiano e tra i gradoni della sua palestra.
Rivedo le prime squadre, i primi campionati, le trasferte con le macchine dei genitori ed i primi viaggi oltre nazione per le nostre Olimpiadi.
Le feste di Natale, che venivano organizzate (quando ancora legislazione e numero degli iscritti lo permettevano) in un salone che diventava per l’occasione teatro delle prelibatezze che solo mamme e nonne sanno sfornare nelle più importanti occasioni.
Rivedo tutte le persone che hanno fatto parte del Consiglio Direttivo, la loro gioia e le fatiche che sono seguite ad un incarico volontario così impegnativo, i tristi arrivederci nel momento in cui le strade erano destinate a dividersi.
Rivedo l’entusiasmo dei “giovani” che adesso sono la vera anima di questa Polisportiva, e la passione con cui tutt’ora scelgono di mettersi in gioco, dedicando, loro come noi allora, uno spazio di cuore a questa casa di mattoni.
Perché alla fine questa palestra è una parte della nostra vita, come la nostra prima fidanzata o la prima macchina che ci è stata regalata dopo la patente.
E’ una parte della nostra vita che cambia forma pur mantenendosi ferma nei suoi valori per assomigliare via via alle persone che sono elette per decidere che direzione percorrere.
E’ molto più di un semplice sport, è molto più di un’idea, è molto più di un passatempo, e chiunque abbia vissuto davvero queste mura lo sa e non può fare altro,ogni volta che mette piede tra questi cortili ed in questa palestra, che sentire solo e soltanto il rumore e l’odore di Casa.